Uomo '71

Piero Ruggeri

1971
Olio su tela
80 x 60 cm
Anno di acquisizione ante 1983


Inv. 0861
N. Catalogo E5


«dentro lo specchio del quadro - nelle cui crepe si mescolano, deformandosi in amalgama sanguigni, realtà e sogno, vita e incubo - si costituisce l’immagine per inserti violenti, incastri, tarsie fiammeggianti, quasi si coagulasse per difficile rito».

 

Fra i maestri dell’Informale a Torino, Piero Ruggeri si pone per tutta la sua carriera il problema di rinnovare la pittura di gesto ritornando ciclicamente su temi e motivi già presenti nel suo percorso e periodicamente riproposti una volta giunti a un nuovo stadio di maturazione. All’interno e oltre la stagione dell’Informale storico, infatti, il pittore torinese si trova ad affrontare, alla fine degli anni cinquanta, il momento di superamento dialettico di quella fase, seguendo il filone di ricerche che tenevano aperto il dialogo con quell’esperienza espressiva. È su questa via che nel corso degli anni sessanta arriva a elaborare una serie di immagini in cui l’impasto denso, modellato a pennello e spesso graffiato, lascia affiorare un’allusione figurativa. Per questo nel 1960 il critico romano Enrico Crispolti lo aveva invitato a un’importante mostra di tendenza presso la Galleria l’Attico di Bruno Sargentini a Roma intitolata «Possibilità di relazione». Quello che nel 1957 era stato definito un pittore «aformale» nel contesto di una mostra a tre con Mario Merz e Sergio Saroni alla galleria Notizie di Luciano Pistoi (con cui Crispolti aveva un’assidua collaborazione) ha compiuto qui un salto in favore di una pittura che cerca di stabilire una relazione fra la gestualità rapida che affonda nella materia e la realtà esterna, recuperando un concetto di raffigurazione. Seguendo questo percorso, Ruggeri era arrivato a elaborare alla fine degli anni sessanta il ciclo dei «Napoleoni»: figure appena accennate entro uno spazio scuro e angusto, da cui affiora una forma circolare centrale, come un occhio o il coronamento di un cappello da generale, trascinato dentro un turbine di segni mosso e violento per quanto inserito dentro una struttura compositiva ben visibile. Si alternano, in questo periodo, Napoleoni, Generali napoleonici o Figure napoleoniche, fino a un importante dipinto dedicato al Generale Marat. Afferiscono però a questa stagione anche altre figure basate sugli stessi principi compositivi, come Uomo ’71, o altre generiche figure umane. Non si può escludere che sia un effetto di lungo periodo della grande mostra di Francis Bacon ordinata da Luigi Carluccio alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino nel 1962, con la quale si faceva il punto dopo quasi dieci anni di circolazione dell’opera del maestro irlandese in Italia, dove Torino e Milano erano i due centri di irradiazione di maggior fortuna critica e collezionistica. 

L’idea, offerta da Bacon, di una figura come grumo di materia e segni, che arrivino a cancellare la fisionomia lasciando però riconoscibile un volto o una figura al centro di un ampio campo scuro, poteva aver suggerito a Ruggeri di inserire all’interno di un’area delimitata del dipinto qualche appiglio che consentisse il riconoscimento analogico di una figura umana. Nella conduzione del dipinto, ciò avveniva alternando grandi distese di colore saturo (rosso o nero generalmente) a concentrazioni di materia modellata a pennello e increspata che individuano i nuclei iconografici di maggior interesse. Proprio nel 1968, presentando una sua mostra di dipinti recenti presso la galleria de Il Milione a Milano, Marco Valsecchi aveva osservato che «dentro lo specchio del quadro - nelle cui crepe si mescolano, deformandosi in amalgama sanguigni, realtà e sogno, vita e incubo - si costituisce l’immagine per inserti violenti, incastri, tarsie fiammeggianti, quasi si coagulasse per difficile rito»1. Due anni dopo l’esecuzione di Uomo ’71, invece, Carluccio insisteva sul fatto che in Ruggeri «il desiderio di durare è un istinto», nel senso che in lui era divorante un vero e proprio «furore» che è «semplicemente ma totalmente in lotta con un oscuro male del vivere, con la misteriosa e ineluttabile energia che ha calcato sulla sua esistenza la forma della pittura»2

La tappa successiva del percorso di Ruggeri, dalla metà degli anni settanta alla metà degli ottanta, in coincidenza con il suo trasferimento da Torino ad Avigliana, è caratterizzata dal ciclo dei «Roveti» e da altri soggetti legati alla natura, che fanno pensare a un ritorno su temi propri del «naturalismo» degli anni cinquanta. Al tempo stesso, questa nuova fase segna un rapporto più disteso con la pittura, anzi una «rinnovata fiducia nella pittura»3 tale da consentirgli una ricerca al tempo stesso evocativa di motivi naturali ma condotta secondo un impulso pienamente emotivo, con la consueta freschezza e immediatezza. Rispetto alla strutturazione di un ambiente, seppur sommariamente evocato, nella stagione figurativa degli anni sessanta, il ciclo dei «Roveti» e simili riporta all’idea di «parete vegetale», o meglio del dipinto che si presenta all’osservatore come un vero e proprio muro verticale su cui la pittura crea un intreccio di segni simile al groviglio di una folta vegetazione dentro la quale ci si deve immergere perdendo la cognizione dello spazio. Per Ruggeri, tuttavia, questo espediente serve soprattutto a dare sulla tela una rapida trascrizione di una tensione esistenziale. Come farà notare Crispolti nell’ultima importante monografia scritta ancora in vita l’artista, nel 1996, su questo si gioca il «rischio» della pittura di Ruggeri: «È rischio di sempre rinnovato confronto esistenziale, come dato vitale, e ricerca di una possibilità ulteriormente convincente di rappresentazione comunicativa emotiva di una tale condizione dell’“esserci”»4

Luca Pietro Nicoletti 

 

1 M. Valsecchi, in Milano 1968a, p.n.n. 

2 L. Carluccio, in Milano 1973a, p.n.n. 

3 E. Crispolti, Una «poetica» del vissuto emotivo, in Crispolti, Fanelli, Trento 1997, p. 103. 

4 Ibid., p. 98. 

Piero Ruggeri, Figure nel paesaggio