Senza titolo (La Gioconda)
Gino De Dominicis
1992
Grafite, fusaggine e tempera bianca su tavola
106 x 106 cm
Anno di acquisizione 2000-2005
Inv. 0105
N. Catalogo A97
Provenienza
Bibliografia
Sono presenze femminili che smarriscono ogni tratto individuale per diventare puro archetipo.
«Nonostante la giovane età, De Dominicis si conferma artista della precedente generazione senza per questo essere suscettibile di vecchiaia e stanchezza»1. Nel 1982 esordiva così un critico della rivista «Segno» recensendo l’ultima personale di Gino De Dominicis alla Galleria Sperone di Roma. L’immagine che di lui si era già accreditata, concettuale nei settanta, pittore negli ottanta, possedeva tratti stilizzati, ma in fondo utili per riassumerne il corso più che decennale. Diversamente da molti coetanei, il passaggio tra quelle due stagioni così diverse fu vissuto senza traumi (gli studi all’Istituto d’Arte di Ancona e poi all’Accademia di Belle Arti di Roma gli garantivano un’ottima conoscenza del mestiere) e soprattutto all’insegna della continuità dei riferimenti. Non si trattava solo di coerenza: i suoi rovelli di sempre (il doppio, il tempo, l’ultraterreno) ben si conciliavano con una temperie dallo sguardo retrospettivo, quanto mai incline ad atmosfere letterarie.
Il passaggio dai lavori installativi e oggettuali alla figurazione era maturato attorno al 1977-1980 per via del medium fotografico. Realizzata proprio allora Urvasi e Gilgamesh (fig. 1) è l’opera di snodo: quella che segna l’avvio della nuova identità creativa di De Dominicis. Si tratta di una fotografia lavorata a inchiostro e grafite. Piatti come sagome per il tiro al bersaglio, i profili del re di Uruk e della divinità indiana nota per la bellezza imperitura si affacciano su un paesaggio esotico di fattura forse ottocentesca. L’ermetico simbolismo viene accresciuto dalla piramide come dal disco volante aggiunti a matita. La sequela di repliche e varianti protrattasi negli anni attesta la fortuna di un soggetto che qui appare per la prima volta. L’universo ermetico, saturo di implicazioni che si perdono nel mito e nella storia di civiltà remote rimarrà una costante, mentre in seguito l’artista sembrerà fare appello a stilismi Déco, al secondo Futurismo, alle sculture di Fausto Melotti.
Fig. 1. G. De Dominicis, Urvasi e Gilgamesh, 1977-1980. Collezione Franchetti.
A distinguerne l’attività matura è soprattutto la pratica del disegno su tavole di pioppo non preparato. «Il segno di De Dominicis rivela sorprendentemente una mano nata per disegnare»2, ha notato nel 1990 Laura Cherubini presentando l’artista nel catalogo della XLIV Biennale di Venezia. E davvero colpisce la strabiliante abilità unita alla capacità astrattiva. Le sue figure sembrano custodi di segreti inattingibili. Sono presenze femminili che smarriscono ogni tratto individuale per diventare puro archetipo. Applicato a volti dall’estenuata eleganza, l’ideale dell’artista parla di una bellezza lontana, dai tratti sfuggenti e carichi di risonanze interiori. Per quanto personalissimi nell’invenzione quanto nella resa tecnica, i rimandi alla storia dell’arte sono evidenti: il gigantismo rispetto alla superficie evoca il Picasso neoclassico, lo sfumato Leonardo, i volti ambigui e ossuti Fernand Khnopff.
L’opera Cerruti manca di una storia espositiva quanto bibliografica, eppure rappresenta un campione importante della stagione. Nasce nel 1992, come indica la data sul retro appena sotto la firma a gessetto bianco, e appartiene alla serie liberamente ispirata alla Gioconda. Sebbene la nota insofferenza di De Dominicis a documentare la propria ricerca ostacoli ogni precisazione cronologica, se ne può riconoscere l’inizio nel 1987, esattamente nella tavola esposta tre anni dopo al Centre National d’Art Contemporain Le Magasin di Grenoble e poi alla XLIV Biennale di Venezia (fig. 2). In questo esemplare di notevoli dimensioni un misterioso volto di tre quarti con le palpebre socchiuse e l’accenno di un sorriso è inscritto in una capigliatura ripresa frontalmente. Il chiaroscuro dato da un fitto tratteggio a matita e carboncino si addensa in corrispondenza del mento, nelle parti intoccate sono invece le venature del legno ad assolvere un ruolo espressivo. I pentimenti all’altezza del collo conferiscono freschezza all’immagine. Diversamente dai lavori di analoga iconografia, qui la capigliatura assume un’evidenza architettonica. La chioma sul lato destro ha un andamento tortile, sostenuta dal cuneo sottostante quanto dal parallelepipedo campito con tempera bianca. Già in collezione privata, il quadro è poi transitato nella galleria romana di Erica Ravenna Fiorentini. Da qui è passato nella raccolta Cerruti in data ancora imprecisabile.
Fabio Belloni
1 Tosi 1982, p. 30.
2 L. Cherubini, Le divergenze dell’arte, in Venezia 1990, p. 23.
Fig. 2. G. De Dominicis, Senza titolo, 1987/1991-1992. Roma, Collezione Calabresi.


