Senza titolo (I sette colli di Roma)
Enzo Cucchi
1990
Olio e piombo su tela
15 x 64 cm
Anno di acquisizione 1995-1999
Inv. 0097
N. Catalogo A89
Provenienza
«L’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia ed agonia, quando a volte fallisce».
Nell’arte di Enzo Cucchi l’immagine è il fuoco che determina la temperatura dell’opera, che porta a combustione molti materiali e tecniche diverse per approdare alla fine all’abbaglio di un’apparizione lampante e lacerante, e che fonda il suo particolare erotismo, conseguenza di un desiderio retto da un’altra economia rispetto a quella del quotidiano1. L’arte infatti paventa un’economia mossa da un immaginario che svolge una funzione erompente, quella di bloccare nella sosta lunga, nella posa stupefatta della contemplazione, l’occhio dello spettatore che così precipita nell’immagine.
Processi di scavo e ricomposizione sono evidenti nel piccolo olio e piombo su tela della Collezione Cerruti, in cui una figura fantasmatica percorre, come un viandante, un inospitale paesaggio montano privo di vegetazione, animato dalla sagoma bianca di due rose e da forme geometriche anch’esse bianche, punteggiate da corvi stilizzati. «L’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia ed agonia, quando a volte fallisce»2.
L’estasi prende innanzitutto Cucchi, l’artista. Si tratta di quello stato particolare e necessario che gli consente di portare il travestimento dell’immagine nella condizione dell’epifania. L’immagine è portatrice da una parte di uno scompenso tra se stessa e quelle esterne a essa, dall’altra produce successivamente, dopo l’esibizione della propria differenza, uno stato di integrazione attraverso l’estasi che modifica la relazione dell’essere umano con la realtà. L’arte possiede una sua interna natura correttiva che le consente di regolare il gesto prorompente della sua apparizione iniziale e di stabilire un rapporto socializzante nel momento della contemplazione.
Una figura solitaria abita il paesaggio di questo dipinto, suggerendo un mondo privo di vitalità. Ma l’immaginario esprime la sua carica di totalità, il bisogno di trascinare nel suo movimento turbinoso anche la radice della vita che è la morte. Essere vivi, per Cucchi, significa proprio allargare il campo di una iconografia del quotidiano che rimuove la morte e la malattia, per garantirsi un controllo dell’esistente.
Funzione dell’arte, per Cucchi, è proprio la possibilità di corrompere tale sbarramento, verso la decomposizione vitale di altre immagini che contengono, come scatole cinesi, dinamiche imprevedibili e non progettabili, aperte a un’economia dissipante e non garantita da nessuna forma, inquinate da un cupio dissolvi che ribalta tutto nella vitalità dell’arte. «Nell’arte c’è una gioia che porta in sé il piacere della distruzione»3. L’artista, per costituzione, parte da un paesaggio di rovine, soltanto da questo può partire per praticare anche un intento costruttivo. Per Cucchi, l’arte abbisogna di una preventiva catastrofe che azzera l’esistente e lo riduce nella cordialità di reperti rovinosi da manipolare successivamente con gli attrezzi di un’opera che ormai si muove liberamente.
La potenza creativa non può inventare nulla dal nulla, ma può umanamente assemblare insieme elementi estranei tra loro. «Poter sovrastare anche la morale: e non soltanto starcene impalati lassù con l’angosciosa rigidità di chi teme all’istante di scivolare e di cadere; ma, inoltre, ondeggiare e giocare su di essa!»4. In questo senso nietzschiano, l’opera di Cucchi si muove sotto la forma di un’onda interna che disarticola i suoi paesaggi e li sottopone a una combustione che non conosce leggi di gravità. Tra le fonti dell’opera di Cucchi, ritroviamo una felice sintesi tra la scorrevolezza di segno di Osvaldo Licini e l’addensamento figurativo di Scipione.
La gravità significa ancoraggio a norme di sicurezza morale che l’arte non conosce e non vuole conoscere, in quanto non si lascia garantire da nessun valore preesistente e da nessuno status quo.
Così l’opera diventa il grimaldello che scava dentro le rovine e ricompone i reperti secondo le leggi di «ondeggiamento perenne», non assimilabile a nessuna statica dell’ordine.
Achille Bonito Oliva
Il dipinto, già parte della collezione del gallerista Cleto Polcina, fu acquistato da Francesco Federico Cerruti, presumibilmente alla fine degli anni novanta, dalla galleria romana di Erica Ravenna Fiorentini [N.d.R.].
1 Il testo prende spunto da: Bonito Oliva 1987, pp. 99-105; A. Bonito Oliva, Transavanguardia: davanti c’è il bel canto, dietro la tortura, in Rivoli 2002-2003, pp. 26-29 [N.d.R.].
2 G. Bateson, Stile, grazia e informazione dell’arte primitiva [1967], in Verso un’ecologia della mente [1972] 2000.
3 Nietzsche 1983.
4 Id. 2015, par. 107.
