Senza titolo

Nicola De Maria

1986
Olio su tela
35 x 44 cm
Anno di acquisizione 1995-1999


Inv. 0106
N. Catalogo A98


Provenienza

In definitiva Nicola De Maria realizza una «pittura di frontiera» tra arte e vita, una cerniera per lo sguardo sociale che può oscillare tra l’inerzia del quotidiano e l’intensità del campo estetico in un movimento di delicata continuità.

 

Una «pittura di cupola» è l’opera Senza titolo (1986), che bene interpreta il genius loci italiano, in cui vita brevis et ars longa diventa l’emblema reso evidente dalle tracce stratificate di una grande cultura che tocca anche l’architettura del quotidiano1. Il Barocco è lo stile che meglio interpreta l’ansia di assorbimento da parte della sensibilità artistica. 

Il piccolo dipinto di Nicola De Maria, artista torinese d’adozione, presenta liriche zone astratte delineate da campiture di colore acceso: rosso, giallo, verde e blu. Lungo il bordo sinistro, alcune lettere si dispongono in verticale a comporre la parola «WIEN». Per l’artista, l’immagine astratta rinvia alla forma non ortogonale della cupola, cioè a una geometria interiore dai contorni smussati. Alla festa dell’accumulo De Maria risponde con quella selezionata della pittura, fatta costruttivamente di interventi cromatici, meditati eppure pieni di aperture, precocemente annunciate già all’inizio degli anni settanta, fino a sconfinare sulla parete oppure nello spazio circoscritto di un dipinto come questo. La forza del colore non è mai aggressiva o competitiva, semmai rinvia a una «nostalgia di totalità», nota caratterizzante dell’artista rispetto all’edonismo puramente gestuale sotteso alla ritrovata creatività della sua generazione, quella della Transavanguardia attiva principalmente negli anni ottanta. Non incombe questa pittura che si propone di abitare come uno stato di esistenza reso visibile e silenziosamente insinuante nella dimensione disadorna del quotidiano. 

«Non procurare mai vergogna agli altri», ci ha insegnato Friedrich Nietzsche. L’arte di De Maria si mette fuori dalla superbia logocentrica della pittura occidentale, giocata quasi sempre sulla bravura della tecnica e dell’esecuzione, sulla superiorità di un procedimento e di un prodotto semplicisticamente stupefacente. La «cupola di pittura» è protettiva e mai invadente o frontalmente alternativa. Dunque non produce vergogna o senso di inferiorità a chi non è adusato alle tecniche dell’arte. Qui l’artista è artefice di una «costruzione di moralità», una architettura dipinta coinvolgente, ma senza l’autorità del Barocco che voleva piegare il corpo sociale. La delicatezza, quasi lirica, dell’intervento pittorico indica una diversa strada della contemplazione, fatta di assorbimento progressivo e non di frontale meraviglia. L’astrazione diventa l’operazione linguistica di una volontà creativa che vuole attraversare il campo polisensibile dell’essere umano come la musica, sfidando anche la sua iniziale disattenzione. Si riversa fuori dai recinti assegnati, con una ineluttabilità cromatica che, come ricorda Serge Poliakoff, è all’incrocio arioso con Paul Klee. 

Flessibile è la pelle di pittura, il tatuaggio segnico e cromatico impresso da De Maria sulle mura romane. Dilatabile ed elastico, indistruttibile e luminoso. Fuori da ogni decadimento. Forte è la mano industriosa dell’artista che si adopera sull’antica architettura per trasfigurarla e nello stesso tempo proteggerla. 

Intervento prezioso è quello dell’artista. De Maria riveste la muta parete col suono cromatico di una pittura viaggiante e nomade, che tocca spazi di molti Paesi senza mai perdere la sua identità o cadenza. Come la musica, la si può suonare in ogni dove, nella sua flessibilità inossidabile e incessante capacità di dialogo. L’artista, infatti, lavora sulla tipologia della cupola e dell’inquadratura. In tal modo si produce un’estensione estetica della pittura, capace di vivere interno ed esterno, attenzione e distrazione sociale, frontalità e lateralità dello sguardo. In definitiva Nicola De Maria realizza una «pittura di frontiera» tra arte e vita, una cerniera per lo sguardo sociale che può oscillare tra l’inerzia del quotidiano e l’intensità del campo estetico in un movimento di delicata continuità. Questo è l’aspetto laico di un’opera incessante e febbrile, che si applica al grande e al piccolo formato, nella consapevolezza di un gesto eccellente e magnanimo capace di creare un cortocircuito tra l’Io dell’arte e il Noi del mondo, di cui l’opera Senza titolo (1986) della Collezione Cerruti è un felice esempio. 

Achille Bonito Oliva

 

Il dipinto fu acquistato da Erica Ravenna Fiorentini probabilmente alla fine degli anni novanta. Dalla gallerista romana, con cui Cerruti ebbe un rapporto di reciproca stima, pervennero in collezione anche Fiori di Giorgio Morandi (sch. p. 832), Senza titolo (la Gioconda) di Gino De Dominicis (sch. p. 940) e Senza titolo (I sette colli di Roma) di Enzo Cucchi (sch. p. 938). La tela di De Maria, con i dipinti di Paladino e Cucchi, è parte del gruppo di opere della Transavanguardia italiana presenti in Collezione Cerruti. Diverse fonti ricordano la presenza negli uffici della Lit in via Ludovico Bellardi a Torino di alcuni dipinti di Sandro Chia, la cui ubicazione attuale è ignota [N.d.R.].

 

1 Il presente contributo trae ispirazione da numerosi scritti di Achille Bonito Oliva sull’opera di Nicola De Maria, tra cui: A. Bonito Oliva, Transavanguardia: davanti c’è il bel canto, dietro la tortura, in Rivoli 2002-2003, pp. 29-31 [N.d.R.].