Senza titolo

Nicolas de Staël

1949
Olio su tela
27 x 40,7 cm
53,5 x 66,5x 5 cm
Anno di acquisizione 2006


N. Catalogo A101
Inv. 0109


Provenienza

Esposizioni

L’innalzamento verticale dell’orizzonte nello spazio pittorico trova inoltre una radice nella ieratica frontalità della cultura iconica bizantina, nativa in de Staël, che si riformulerà anche nel lirismo spirituale delle ultime grandi composizioni, del 1954 e 1955. 

 

Il destino erratico di Nicolas Vladimirovitch de Staël von Holstein, esponente tra i più radicali della pittura informale europea a lungo negletto, ha ispirato un’appassionata letteratura biografica la cui inclinazione alla retorica e al gusto per il romanzo finirono per far assorbire nella parabola esistenziale del pittore anche l’eredità della sua opera. Non mancano le immagini per il racconto di una vita spesa in maniera assoluta: l’infanzia presso la corte imperiale dell’ultima dinastia russa, l’adolescenza esule per l’Europa e poi, già pittore in ricerca, intorno al Mediterraneo. Slavo, déraciné e indigente in Francia; artista quotato oltre Atlantico e sucida ad Antibes. Di origini aristocratiche, nasce a San Pietroburgo nel 1914 e si stabilisce a partire dal 1938 in Francia dove sarà naturalizzato. Compiuta la formazione nell’ambito della tradizione figurativa accademica, i primi annunci di una radice di segno astratto si danno, tra il 1942 e il 1943, in una serie di pastelli su carta che risentono della vicina lezione astratto-geometrica della generazione dei maestri, soprattutto Alberto Magnelli, Jean Arp e i coniugi Delaunay, con i quali condivide il periodo di rifugio a Grasse durante l’occupazione tedesca di Parigi, tra il 1939 e il 1942. Lezione che da lì a poco lo porta a superare l’intima controversia con la quale guardava alle nature morte e ai ritratti da poco congedati, e poi quasi interamente distrutti, a intraprendere un’autonoma vocazione formale. L’esordio espositivo avviene nell’inverno del 1944, accanto a Vasilij Kandinskij e Cesàr Domela, presso la Galerie Jeanne Bucher[1], nella temperie di una Parigi occupata in cui la vitalità dell’arte astratta era soggetta alla sorveglianza politica esercitata dal governo di Vichy. 

In questo dipinto Senza titolo, già proveniente da una collezione privata torinese e acquistato da Francesco Federico Cerruti nel 2006, una geometrica massa grigia, quasi al centro della tela, introduce lo sguardo concentrando le tensioni che gravitano intorno: la vivida struttura delle macchie rosso cinabro e l’accelerazione dinamica dei volumi verticali più scuri, in verde petrolio e blu oltremare, verso i lati. La composizione si serve poi della modulazione degli strati e della crescita della pasta, che in questi anni raggiunge la sua zona più solida per poi farsi più leggera e volatile dal 1953, per immergere lo spazio in una sostanza organica uniforme, tenuta dal bianco di zinco del fondo. Con alterne direzioni della stesura, la materia è sollecitata a più riprese attraverso l’uso della spatola e della punta del pennello, animata dalla variazione della texture, tra ossigenazione delle zone colore e loro leggero crepitare. André Chastel, scrivendo nel 1968 l’introduzione della prima edizione del catalogo ragionato dell’opera[2], poggiava tra il 1946 e il 1949 un cardine temporale con cui segnalare l’accelerazione della ricerca di quegli anni. Dal 1949 si apriva una distesa riorganizzazione formale, in cui si assiste al segno che retrocede, rinunciando al singolo intervento strutturante e alla forza espressiva dei dipinti anteriori. La composizione, anche attraverso lo schiarimento della tavolozza e la partitura tonale del colore, diviene più sistematica, congedando delle immagini che, come questa del dipinto Cerruti, ora scevre dalla fosca drammaticità prima così costituente, si articolano organicamente. Ciò che cede del gesto precedente è riparato dal vantaggio della struttura e della consistenza, avanzando, secondo un progressivo spostamento che altro tragitto avrà nell’opera di de Staël, verso una maggiore sostanzialità. Nel 1948, in occasione della prima mostra oltre oceano, a Montevideo, così lo salutava Pierre Courthion nel testo di introduzione al catalogo: «Siamo di fronte a un pittore eccezionale che ha, nel suo lavoro, il dono molto raro di trasformare in visione intuitiva l’estrema qualità della sostanza»[3]. 

Lo spazio compresso sulla superficie realizza quella dimensione che de Staël, come altri artisti coetanei che ne rilevarono la vitalità informale, riprende dall’estetica esistenzialista del muro. L’immagine del muro, la cui memoria risale all’infanzia di de Staël, cresciuto dentro l’imponente muraglia della fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, è richiamata dalla sembianza calcinata e dai larghi strati di pittura sovrapposti, che lasciano in evidenza crepe e crettature, presenti in molte tele del 1950, come la grande Composition en Gris et Bleu, o anche nell’esplicito riferimento del titolo di Le Mur, del 1951. L’innalzamento verticale dell’orizzonte nello spazio pittorico trova inoltre una radice nella ieratica frontalità della cultura iconica bizantina, nativa in de Staël, che si riformulerà anche nel lirismo spirituale delle ultime grandi composizioni, del 1954 e 1955. In una lettera indirizzata a Pierre Lecuire, il 3 dicembre 1949, de Staël evocava efficacemente la metafora del muro, come paradigma di quella variazione metafisica che tentò di operare in pittura, attraverso un lungo magistero della misura, da sempre accudita e sorvegliatissima, con cui sublimare lo spazio pittorico: «Lo spazio pittorico è un muro ma tutti gli uccelli del mondo vi volano liberamente. Ad ogni profondità»[4]. 

Laura Cantone

 


[1] Parigi 1944.

[2] Chastel, de Staël, Dubourg 1968, poi ripreso in de Staël 1997.

[3] Courthion 1948, Bonjour à Nicolas de Staël, consultato in Parigi 2003, p. 48 («Nous somme devant un peintre exceptionnel qui, dans son travail, a le don très rare de transformer en vision intuitive l’extrême qualité de la substance», trad. dell’autrice).

[4] Lettera a Pierre Lecuire, Parigi, 3 dicembre 1949, in de Staël 1997, p. 871 («L’espace pictural est un mur mais tous les oiseaux du monde y volent liberement. À toutes profondeurs», trad. dell’autrice).