San Girolamo nel deserto
Neroccio di bartolomeo de' Landi
1495-1500 c.
Olio su tavola
54,2 x 37,6 cm
Anno di acquisizione 1983 ante
Inv. 0052
N. Catalogo A43
Provenienza
Bibliografia
Neroccio produsse numerose anconette, ma questa nel suo genere è davvero unica.
La tavola, a venatura verticale, rappresenta un Andachtsbild di particolare impegno, per l’intensità patetica con cui è raffigurato san Girolamo che si mortifica nella solitudine del deserto di Palestina e per la descrizione varia e accidentata della circostante natura, popolata di animaletti. Sul fronte presenta la cornice dorata originale, così come antichi sembrano la sagomatura del tutto insolita sullo spessore, a doppia modanatura, ridipinta al centro con un azzurro posticcio, e l’intaglio di una cornice pure sul tergo, con listelli larghi 3,5 cm, bloccati da vecchi chiodi (manca solo il listello superiore), forse in vista di una pittura opistografa che poi non ebbe luogo.
Sulla gessatura moderna del retro, in basso a destra, si legge una scritta apparentemente sei-settecentesca, «[Frances]cho Squarcione». L’aspra configurazione rocciosa del paesaggio e lo sbalzo plastico del corpo del santo, in accentuata tensione, avranno suggerito un battesimo simile, che allora fungeva in sostanza per quello all’ambito di Andrea Mantegna, dal momento che questi da giovane si firmava ed era noto come discepolo di Squarcione o addirittura come «Andrea Squarcione». Con tale improbabile paternità l’opera venne pubblicata da Gustavo Botta nel catalogo della collezione milanese Agosti-Mendoza, del 1936, dove era giunta per acquisto da Achillito Chiesa. Il dipinto non ha però mai meritato una discussione in sede più autorevole ed è incredibilmente sfuggito finora agli studi sulla pittura senese del Rinascimento. Da anni lo conoscevo, dalla foto in bianco e nero del catalogo Agosti-Mendoza, e avendovi riconosciuto un raro capolavoro dell’estrema maturità del pittore senese Neroccio de’ Landi attendevo con viva curiosità la riemersione della tavoletta, che non ha deluso le aspettative, rivelando una fascinosa veste cromatica, dove la limpidezza atmosferica, impensabile nel percorso del pittore prima del 1480 circa, si colora di tenui riflessi verdolini e rosa antico. Frattanto anche Federico Zeri aveva individuato la paternità neroccesca e l’importanza dell’opera, tanto da dedicarle un’apposita carpetta del suo archivio, fra quelle riservate a progetti di articoli con attribuzioni e collegamenti inediti1.
Come tipologia il dipinto è praticamente unico nel corpus di Neroccio. Non sono infatti equiparabili le due tavole con mistiche Visioni di Santa Caterina da Siena (Settignano, Villa I Tatti, Harvard University, Collezione Berenson, e collezione privata2), che non sono dipinti autonomi ma segmenti di una predella, con venatura orizzontale, e appartengono a tutta un’altra stagione del maestro, quella fortemente marchiata dalla compagnia con Francesco di Giorgio, sciolta nel 1475. Là architetture pencolanti intarsiavano in maniera artificiosa gli scorci di interni fra marmi variegati, qui la stessa sensibilità al fondo frammentaria è piegata a effetti di illusione più sensibile e naturale, impigliandosi sì in mille dettagli, ma pure dilatandosi verso un orizzonte remoto e azzurrino.
La conoscenza di questo dipinto non è un accrescimento indifferente. In mezzo a una produzione cospicua e per certi versi un po’ seriale di tavole di devozione, raffiguranti la Madonna col Bambino fra santi a mezzo busto, senza importanti aperture d’ambiente, in linea con la tradizione di dipinti devozionali inaugurata a Siena fin dalla prima metà del secolo da maestri come Sano di Pietro, spicca la freschezza dell’inscenatura naturale su cui la luce trascorre sensibile, attestando insospettate aperture non solo verso Luca Signorelli, presente a Siena verso il 1488-1490, ma pure verso quell’ambiente fiorentino, fra Ghirlandaio e Jacopo del Sellaio, su cui si era orientato un pittore senese più giovane come Pietro di Francesco Orioli, a cui reagisce anche per il patetismo più morbido del volto urlante (ma si potrebbero evocare a paragone anche altri pittori attivi a Siena sullo scorcio di secolo, come Pietro di Domenico o il sublime Maestro di Griselda). Lo schema grafico della figura di san Girolamo, che si genuflette quasi puntellando a terra e in avanti le due ginocchia, deriva ancora da una felice invenzione di Francesco di Giorgio, volta a bloccare figure protese in avanti, quasi scheggiate per l’intenso movimento (vedi in particolare il rilievo della cosiddetta Discordia, noto in due esemplari in stucco, al Victoria and Albert Museum e nella Collezione Chigi Saracini a Siena), ripresa in più occasioni anche da Liberale da Verona e da Michele Ciampanti verso il 1470, sottesa all’arcangelo Gabriele dell’Annunciazione di Neroccio della Yale University Art Gallery a New Haven.
La pittura però non è quella tagliente, attenuata nei toni pallidi delle carni, più caratteristica del maestro, bensì presenta un ben più ricco impasto, anche attraverso la sperimentazione ormai esplicita del medium oleoso, che non ultimo orienta verso una data assai inoltrata, negli ultimi anni del secolo, in linea con le ombreggiature più tenere e vellutate della bellissima pala della pieve della SS. Annunziata a Montisi, misconosciuto capolavoro finale dell’artista, datato 1496. Nonostante questo insolito pittoricismo, nella stessa fisionomia di san Girolamo si riconosce un tipo neroccesco, con gli alti zigomi, le occhiaie incavate, le ciocche dei capelli inarcate, quelle della barba ben spartite. Non sempre però egli riuscì a rendere così felicemente un equivalente dei valori plastici, accarezzati ma pure ben torniti, che perseguì nel marmo e nel legno, essendo a pieno titolo, come Francesco di Giorgio, sia pittore sia scultore.
La grotta davanti a cui si prostra il santo eremita, battendosi il petto a sangue al cospetto di un Crocefisso, che per l’intensità della sua preghiera diventa in carne e ossa, è aperta in un roccione composto da placche levigate, come quello della grotta di san Benedetto, nella scena della predella degli Uffizi, con il santo che riceve il vitto dal compagno Romano.
La predella benedettina, attestata nelle collezioni di Poggio Imperiale fin dal 1625, come opera di Alesso Baldovinetti, ma la cui provenienza è ancora misteriosa, era stata datata troppo presto, quando si pensava fosse sottoposta all’Incoronazione della Vergine di Monteoliveto Maggiore (ora nella Pinacoteca Nazionale di Siena) di Francesco di Giorgio (1472-1474), ciò che è smentito pure dal colore nero dell’abito di san Benedetto, o troppo tardi, verso il 1482, quando la si collegava erroneamente a una commissione lucchese documentata in quell’anno3. Verosimilmente rappresenta lo stile narrativo di Neroccio all’indomani della separazione da Francesco di Giorgio, nella seconda metà dell’ottavo decennio.
Il confronto con il San Girolamo nel deserto della Collezione Cerruti, altra rarissima scena ambientata nel paesaggio, è illuminante, perché da una parte mi pare confermi in tanti dettagli, senza margine di dubbio, la paternità neroccesca del dipinto di devozione, ma dall’altra evidenzi una notevole evoluzione verso valori atmosferici più stemperati e avvolgenti, un superamento del disegno affilato e minuto che ancora caratterizzava la predella benedettina.
Le ombre proiettate a terra dal santo, del cui nimbo per inciso non rimane alcuna traccia, sono più consistenti; la luce investe la figura da sinistra e provoca anche un’ombra del braccio sinistro sul fianco del corpo nudo.
Un accenno di prospettiva aerea si scorgeva già nella citata scena con San Benedetto nella grotta, ma qui i lontani azzurrini, tremolanti fra acque e terre, hanno un’altra suggestione, battono per modernità e felicità pittorica sia Signorelli sia Jacopo del Sellaio. Il piano di posa, come una terra battuta, si accende di un caldo tono ocraceo e si ritaglia in primo piano su uno specchio d’acqua dalla superficie tremolante, i riflessi della ripa rocciosa, alcune canne palustri; poi sfuma in toni di rosa antico, incisi nelle crepe sottili da ombre nerastre, non senza un verde prato abbarbicato che si sfrangia sul bordo, con discreta assimilazione delle bave vegetali verrocchiesche, ancora ignote nelle Storie di San Benedetto e pure nella Natività di San Benedetto fuori porta Tufi di Francesco di Giorgio (1475-1476).
Al vertice tronchi secchi e contorti, nere silhouette, si stagliano contro il vasto cielo, ed è invenzione bellissima, in cui crepita la sensibilità squisita del pittore senese. In primo piano a sinistra uno splendido airone rosso (ardea purpurea), ritratto in maniera un po’ fantasiosa, dalle ali verdi, dal petto, dal collo e dal becco rosso rubino, si slancia a ghermire una preda tra rocce e canne (fig. 1). Sul terreno, fra il leone ammansito come un cucciolo e l’eremita a piedi nudi, si stagliano un granchio, uno scorpioncino e due verdi serpenti. Va ricordato che già Sano di Pietro inserì scorpioni e serpenti dipingendo questo soggetto in alcune predelle e in una tavola di devozione (Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. 265), di dimensioni più ridotte (34 x 26 cm), che è all’origine della limitata fortuna senese del genere, altrimenti diffuso nel resto d’Italia, specie nella seconda metà del secolo (a Siena ricordo un pannello di Benvenuto di Giovanni, del County Museum di Los Angeles, dalla figura più bloccata, pure con la pietra sanguinante nella destra e il circulum precatorium nella sinistra, e rocce con bave vegetali).
Neroccio produsse numerose anconette, ma questa nel suo genere è davvero unica. Curiosamente non sembra avesse in bottega dipinti pronti per la vendita, dovrebbero essere opere dipinte ad hoc e per questa, per il forte investimento sia inventivo sia esecutivo, si può immaginare un committente d’eccezione. Nell’inventario dei beni steso alla morte del maestro, il 26 novembre del 15004, infatti, sono elencati fra i materiali di bottega numerose teste di gesso e di terracotta, tre Madonne di stucco, una di Donatello e due dell’artista, un san Bernardino incompiuto di Vecchietta, probabilmente una statua («una figura abozata»), pezzi di marmo, di porfido e di serpentino, ma solo un’anconetta dipinta, citata fra mezzo a lenzuola e cofani, quindi probabilmente un colmetto di devozione a suo uso, nella camera da letto («Uno quadro di Nostra Dona posto sul tabenachulo cho le tenducie apichate»; anche la presenza delle cortine depone in favore di un oggetto d’uso).
Andrea De Marchi
1Nelle more di stampa di questo catalogo ho frattanto commentato l’attribuzione di Federico Zeri in un volume dedicato a materiali inediti del suo archivio (A. De Marchi, Un San Girolamo en plein air di Neroccio, dolceagra apertura al protoclassicismo, in Bacchi et al. 2019, pp. 269-277).
2Si veda A. Angelini, in Strehlke, Brüggen Israëls 2015, pp. 491-494, con data al 1468-1470.
3Si veda M. Maccherini, in Siena 1993, pp. 328-331, e per un chiarimento della faccenda F. Caglioti, in Prato 2017-2018, pp. 188-192.
4Si veda Coor 1961, pp. 152-159.
Fig. 1. San Girolamo nel deserto, particolare dell’airone rosso.

