Voilà mon rêve
Questo è il mio sogno
Alberto Savinio (Andrea de Chirico)
1928
Olio su tela
81,5 x 65,5 cm
Anno di acquisizione 2006
Inv. 0195
N. Catalogo A190
Provenienza
Esposizioni
Bibliografia
«Il mondo metafisico [...] è fatto a caselle, a schede, a scalette. E così diventano possibili e logiche le scoperte, l’arrampicamento su per le vie delle nuove verità»
L’opera appartiene al ciclo pittorico che nel 1928 Alberto Savinio dedica all’uomo privo di identità, nelle varianti del manichino metallico, del nudo o della statua senza volto o con il viso nascosto da una celata. Il ciclo, di cui fanno parte OEdipe et Antigone, Les châtelains, La mère et l’enfant, Gladiatori, La bataille1, è percorso da una forte vena narrativa, alimentata dai richiami che uniscono le opere in un ampio e articolato racconto visivo.
Il fulcro del dipinto è un sensuale nudo femminile circondato da tre manichini ferrigni. Le quattro figure, assimilate dalla testa avvolta in una maglia a griglia, sono incastonate in una configurazione scultorea, una torre di corpi e poliedri innalzata fra terra e cielo. Le vivaci cromie delle figure e dei volumi risaltano fra la massa terrosa che incombe a sinistra, ottenuta dalla stesura magra dei bruni e delle terre di Siena, e lo spicchio notturno, in alto, a destra, vibrato nelle sfumature del blu di Prussia e dell’indaco. «Nuit complète, mais le ciel est bleu. L’homme-chauve gît par terre. Des homme-cibles en tôle sont rangés contre le mur [...]. Des homme noirs en fer forgé passent [...]», così aveva scritto Savinio nel 1914 in Les chants de la mi-mort2. Per le Scènes dramatiques del poema, l’artista, non ancora pittore, aveva disegnato i bozzetti dei personaggi: manichini da sartoria, prototipi del manichino metafisico che de Chirico introduceva, in parallelo, in dipinti come La nostalgia del poeta3. I manichini del 1928 discendono da quella famiglia di uomini calvi o ritagliati nella latta con i quali Savinio, nella Parigi degli anni dieci, aveva echeggiato l’uomo senza volto di Le musicien de Saint-Merry dell’amico Guillaume Apollinaire, e aveva contribuito ad accrescere il repertorio di umanoidi tematizzato dalle avanguardie, in un idioma declinato in pittura dagli automi di Fernand Léger e di Fortunato Depero, dalle dinamiche meccanomorfe della Mariée di Marcel Duchamp sino ai portraits mécaniques di Francis Picabia.
In Voilà mon rêve, l’artista riconvoca i personaggi metallici di Les chants de la mi-mort e nel disporli attorno al nudo, in assise su una ribalta vertiginosa, riflette sui rapporti tra umano e meccanico, maschile e femminile, traslandoli nel confronto tra classicità e modernità, Realismo e Astrazione, Metafisica e Surrealismo. La cornice dell’operazione è il sogno, evocato dalla struttura a spirale della composizione, un vortice crescente che assorbe i contrasti incongrui di carne e ferro, stoffa e pietra, forme organiche e oggetti geometrici e il cui apice prelude a una svolta ulteriore. Lo spazio, compreso tra la roccia che si intravvede alla base e il picco montagnoso al vertice, è uno spazio inerpicato, assiepato di presenze, scalate su livelli successivi: il «mondo metafisico - pensa Savinio - [...] è fatto a caselle, a schede, a scalette. E così diventano possibili e logiche le scoperte, l’arrampicamento su per le vie delle nuove verità»4. La dimensione del sogno e del sonno, nel quale l’artista spiega di vivere in un «modo più precipitoso del reale», è presieduta da «Ermete oneiropompo»5. Mercurio, come preferisce chiamarlo, è il nume tutelare convocato a sovraintendere alla mobilità, alle escursioni nel reale e nell’immaginario, nello spazio e nel tempo. Il viaggio nella storia, e in particolare nella storia dell’arte, procede per citazioni e ricalchi, utilizzati per suscitare frizioni attraverso l’anacronismo. Così, il basamento su cui insistono i personaggi di Voilà mon rêve ha allo stesso tempo la forma di una geometria astratta e quella della predella di una Madonna in trono, con gli scalini ricoperti di tessuti e tappeti policromi. Il nudo al centro dell’opera, come ha osservato Pia Vivarelli, riprende la Venere e amore di Arnold Böcklin del 1861, a sua volta tratta «da un aulico modello di origine seicentesca - la Venere e amore di Guido Reni»6. Entro gli schemi e le posture di una sacra conversazione, Voilà mon rêve mette in dialogo tradizione e avanguardia. Prima dell’ingresso nella Collezione Cerruti, avvenuta con ogni probabilità nella seconda metà degli anni novanta, la storia dell’opera è associata ad alcune delle più influenti gallerie d’arte italiane, dal Cavallino di Venezia al Naviglio di Milano, dalla Marescalchi di Bologna a Farsetti di Prato. Il suo iter espositivo, generalmente fatto iniziare nel 19437, va più verosimilmente posposto al 1964, anno in cui figurò in una collettiva alla Galleria Penelope di Roma. Nel 1990, il dipinto è stato esposto a Verona, nell’importante antologica «Savinio. Gli anni di Parigi», mostra fondativa nell’ambito degli studi scientifici dedicati all’artista.
Giorgina Bertolino
1 Vivarelli 1996, nell’ordine, pp. 49 n. 1928 10, ill., 51 n. 1928 13, ill., 52 n. 1928 15 e 1928 16, ill., 53 n. 1928 18, ill.
2 Les chants de la mi-mort. Scènes dramatiques d’après des épisodes du «Risorgimento», apparvero nel numero dell’agosto 1914 di «Les Soirées de Paris», ora in Savinio 1974, p. 12.
3 In un appunto manoscritto, conservato nel Fondo Savinio all’Archivio Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze, l’artista ricordava che «I bozzetti dei personaggi (l’uomo calvo e l’uomo giallo) sono l’origine dei “manichini” della pittura cosiddetta metafisica».
4 La citazione è tratta da una serie di Aforismi scritti da Savinio tra la fine del 1916 e il luglio 1917, ora in Italia 2004, pp. 61, 381, 471.
5 Savinio 1995, p. 163.
6 Verona 1990-1991, p. 170.
7 Come già osservato nelle schede di Pia Vivarelli dedicate all’opera (Verona 1990-1991, pp. 170-171 e Vivarelli 1996, p. 54), la presenza del dipinto alla Quadriennale di Roma del 1943, suggerita dall’etichetta a stampa posta al verso della tela, recante l’indicazione di provenienza della Galleria del Naviglio di Milano (aperta per altro nel 1946), non ha riscontro negli archivi dell’Istituzione romana. Le verifiche sul Registro delle spedizioni delle opere di pittura della IV Quadriennale, compiute in occasione della presente pubblicazione, confermano l’incertezza del dato.
