Natura morta
Giorgio Morandi
1951
Olio su tela
35 x 48 cm
Anno di acquisizione 1993 ante
Inv. 0152
N. Catalogo A145
Provenienza
Esposizioni
Bibliografia
Queste lunghe bottiglie diventano i fondamentali riferimenti spaziali del quadro [...]
«Chi ha detto che Morandi si ripete? Che i suoi quadri sono tutti uguali? Ciechi, lavatevi gli occhi! C’è più avventura di fantasia in queste bottiglie e in questi paesaggi che in tutto il resto, forse, della pittura italiana contemporanea»1. La reazione di Renato Guttuso di fronte ai quadri della collezione di Carlo Cardazzo esposti a Roma nella primavera del 1941 può degnamente introdurre le cinque tele di Giorgio Morandi della Collezione Cerruti. Un artista che fu spesso accusato di monotonia, tematica ma anche stilistica, sperimenta nel ventennio in cui si scalano queste opere una varietà di linguaggi pittorici quasi sconcertante: sul piano dell’esecuzione Morandi oscilla dalla stesura sensibilmente chiaroscurata, ricca di modulazioni tonali, della Natura morta del 1945 fino alle superfici opache di quella del 1951 ottenute con pennellate dense e sovrapposte; sul piano della regia visiva (e per ciò che riguarda, in particolare, il rapporto tra la posizione delle cose nello spazio e l’arabesco delle loro forme che affiora sulla superficie) la violenta, sintetica tarsia del Paesaggio del 1939 sembra l’esatto opposto della morbida modulazione luminosa, di memoria pierfrancescana, della Natura morta del 1958. Chi oggi guardi insieme questi cinque quadri deve ammettere che non esiste uno «stile Morandi»: a creare un legame tra di loro è la tensione che costantemente si crea nel rapporto tra l’architettura della visione e il colore, costantemente chiamato a contraddire questa architettura. Gli osservatori più preparati riconobbero in questa tensione il cuore della ricerca pittorica di Morandi e la sua grandezza: nel 1939 Cesare Brandi intuì che nella «fusione a caldo» tra «costruzione spaziale prospettica e costruzione cromatica» era quest’ultima a imporsi, e il colore portava sempre un «improvviso attacco dissolvente all’oggetto»2.
La Natura morta dove si raggruppano al centro le quattro bottiglie (due bianche in primo piano, due scure sullo sfondo), la brocca di rame e la scatola metallica di tè posta di scorcio si colloca nella fase morandiana degli anni cinquanta di più decisa sintesi volumetrica e spaziale. A partire dal 1951 Morandi reintroduce nelle sue nature morte le bottiglie lunghe e strette che già aveva raffigurate a partire dal 1929 e che, colorate di bianco (con la consueta intenzione di impedire il disturbo di riflessi luminosi) erano diventate dal 1932, e lungo tutti gli anni trenta, una presenza costante: esse dovevano imprimere alla natura morta una spinta in verticale e, insieme, animarla di una trama grafica molto forte, con profili incisi contro il vuoto dello sfondo. Queste lunghe bottiglie diventano i fondamentali riferimenti spaziali del quadro: erano usate da Morandi, secondo una acuta lettura in chiave architettonica di Carlo Ludovico Ragghianti, «come antefisse, in prevalenza per marcare in primo piano gli arrivi di una composizione leggermente radiante e ruotata sul fondo [...] con un’apertura che si schiude come una respirazione»3. Il quadro venne esposto in una sala di «Antologia di maestri» alla Biennale di Venezia del 1952, una delle rarissime occasioni offerte in Italia nel dopoguerra di vedere opere di Morandi in esposizioni istituzionali: il catalogo ne dichiarava l’appartenenza a una generica collezione privata veneziana. Non è possibile precisare la data di entrata nella Collezione Cerruti4.
Flavio Fergonzi
1Guttuso 1941, poi in Guttuso 2013, p. 181.
2Brandi 1939, p. 250.
3Ragghianti 1982, p. 249.
4L’opera è menzionata nell’Inventario del 30 giugno 1993, registrata negli ambienti «vestibolo e scala» (Archivio Collezione Cerruti).
