L’ingresso del Canal Grande
Giacomo Guardi
anni novanta del XVIII sec.
Olio su tela
25 x 36,4 cm
Anno di acquisizione 1989
Inv. 0026
N. Catalogo A24a
Provenienza
Bibliografia
La scrittura ferma e un poco scolastica con cui sono realizzate le architetture, il supporto ligneo, invero piuttosto raramente frequentato nella produzione guardesca, suggeriscono confronti con la maniera del figlio di Francesco, Giacomo, specializzato nella ripresa e miniaturizzazione di vedute paterne.
Già Antonio Morassi notava come le piccole vedute di ambito guardesco fossero costruite su schemi desunti da modelli canalettiani. Il formato ridotto e la vivacità della pennellata, però, riportano a una dimensione completamente differente da quella dell’illustre precedente: una Venezia miniaturizzata e tascabile che ha in sé l’elemento del grazioso souvenir quanto quello sentimentale del ricordo e, necessariamente, del rimpianto e del sogno. Una città non già semplicemente descritta ma modellata e plasmata dal suo vagheggiamento, entro le coordinate tipiche del mondo guardesco.
Tuttavia, nonostante Morassi considerasse le due opere come autografe di Francesco e in particolare il dipinto con Il molo e Palazzo Ducale un’«opera bellissima del periodo maturo, da collocarsi circa il 1760- 70», una certa freddezza e rigidità nell’interpretazione della scena devono indurci a riconsiderare attentamente la paternità delle tavolette. La scrittura ferma e un poco scolastica con cui sono realizzate le architetture, il supporto ligneo, invero piuttosto raramente frequentato nella produzione guardesca, suggeriscono confronti con la maniera del figlio di Francesco, Giacomo, specializzato nella ripresa e miniaturizzazione di vedute paterne. La figura di Giacomo, per molto tempo sottostimata, a detrimento del livello qualitativo della produzione paterna, è stata messa a fuoco soltanto negli ultimi decenni per quanto riguarda la sua produzione grafica (su cui si vedano in particolare i disegni conservati al Museo Correr di Venezia1) e, in modo più limitato, pittorica. Sulla natura della sua arte, che talvolta scivola nell’abile ma un poco scolastico artigianato, valgono in tal senso le precisazioni fornite da Succi2 a proposito dei riusi e manipolazioni dei vari modelli paterni per quanto riguarda l’ampia produzione di «capricci», in parte condotti sotto la supervisione di Francesco, ma molti dei quali realizzati anche vari anni dopo la scomparsa del capobottega.
Il linguaggio di Giacomo si tradisce nelle figurine che sono quasi caricaturali rispetto alle delicate e impalpabili creature paterne, allucciolate in tocchi di pennello sin troppo ostentati; nell’illuminazione, chiara e nitida, ma ferma e un poco inerte, incompatibile con quella pulviscolare, animata del modello; nelle architetture di carta, improntate a creare un effetto d’insieme finalizzato al «grazioso» ma privo della poesia di Francesco.
Per tutte queste ragioni sembra verosimile espungere le vedutine, non prive di un loro fascino, dal catalogo del maggiore esponente della famiglia per assegnarle a Giacomo, in un momento a ridosso della morte del padre, quando maggiori sono il controllo formale e la tenuta stilistica, nel desiderio di mimetizzarsi quanto più possibile con un’interpretazione del genere vedutistico ancora di grande successo e apprezzata dal pubblico.
Denis Ton
1 Si veda Pignatti 1983, vol. III, pp. 207-286.
2 D. Succi, Francesco Guardi 1712-1793, in Gorizia 1988, pp. 325-383.
