La Mémoire

La memoria

René Magritte

1957 c.
Tempera su carta
34,8 x 26 cm
Anno di acquisizione 1993


Inv. 0136
N. Catalogo A129


Provenienza

Esposizioni

Bibliografia

«Il Surrealismo rivendica per la vita della veglia una libertà simile a quella del sogno»

 

È la realtà a essere carica di insensatezza oppure sono gli apparati ricettivi dell’uomo a sconvolgerne l’ordinata naturalità? Forse, è ponendosi una simile domanda che il ventisettenne René Magritte osservò per la prima volta gli enigmatici dipinti di Giorgio de Chirico. Era il 1925, quando l’amico Edouard Léon Théodore Mesens gli mostrò le riproduzioni di alcune opere del pittore della Metafisica (sch. p. 810). Tra queste figurava Le Chant d’amour (1914, New York, Museum of Modern Art), una tela in cui il potere attrattivo delle incongruenti associazioni (un guanto di caucciù di colore rosso, la testa in gesso dell’Apollo del Belvedere, una sfera verde, un muro in mattoni, la sagoma di una locomotiva in lontananza...) è espresso con violenza sfacciata, resa ancor più drammatica dal nitore che caratterizza la scena. Tredici anni più tardi, Magritte, durante una conferenza al Musée des Beaux-Arts di Anversa, evocava quell’incontro e il cambiamento di rotta che la pittura di de Chirico aveva impresso alla sua carriera: 

«Nel 1910 de Chirico gioca con la bellezza, immagina e realizza ciò che vuole: dipinge il Canto d’amore, in cui si vedono riuniti un guanto da boxe [sic] e il viso di una statua antica [...]. Questa poesia trionfante ha sostituito l’effetto stereotipato della pittura tradizionale. È una completa rottura con le abitudini mentali proprie degli artisti prigionieri del talento, del virtuosismo e di tutte le piccole specialità estetiche. È una nuova visione, nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento e intende il silenzio del mondo»1

De Chirico non era stato il solo a spingere Magritte ad abbandonare gli esordi cubo-futuristi e le recenti prove dadaiste. A lui si univano altri due grandi contemporanei: Max Ernst, che con collage e frottage mostrava come si potesse «facilmente fare a meno di tutto ciò che dà prestigio alla pittura tradizionale»2, e Joan Miró, il cui biomorfismo automatico e semiautomatico avrebbe influito sulla nascita della serie di dipinti di parole del belga3. Per Magritte era arrivato il tempo di abbracciare il Surrealismo, uno dei pochi antidoti, insieme al sogno, alla follia e all’amore, con cui sfuggire alla mediocrità del presente. Sempre nella conferenza del 1938, raccogliendo gli infausti segnali che provenivano dalla politica europea e facevano presagire il dramma della guerra che, di lì poco, avrebbe investito l’umanità, Magritte dichiarava a gran voce la libertà del Surrealismo, una nuova forma di umanesimo per una società vittima della miseria del proprio tempo: «il Surrealismo [...] offre all’umanità un metodo e un orientamento dello spirito appropriati a svolgere investigazioni nei campi che si sono finora voluti ignorare o disprezzare, e che nondimeno concernono direttamente l’uomo. Il Surrealismo rivendica per la vita della veglia una libertà simile a quella del sogno»4

Nella gouache in Collezione Cerruti è facile recuperare i fili sottesi dell’influenza dechirichiana: uno sguardo al maestro della Metafisica che non venne mai meno, neppure negli anni maturi della carriera. Il foglio mostra una testa in gesso, il cui candore è compromesso, in corrispondenza della tempia destra, da un’eloquente macchia di colore rosso. Sulla balaustra in pietra, accanto al gesso, è posata una rosa recisa. Subito oltre, un pesante tendaggio, aperto nel mezzo, consente l’affaccio su una malinconica marina in notturna, con onde che increspano le acque e una luna calante al centro della scena. La composizione non è una novità nel vasto repertorio magrittiano: già nel 1942 l’artista realizzava il primo olio con questa particolare iconografia, seguito, nell’arco di tre lustri, da molte altre prove, prevalentemente su carta5. La combinazione dechirichiana di elementi incongrui è lampante: Le Chant d’amour è un sicuro termine di raffronto, al quale, tuttavia, si può aggiungere, per il riferimento drammatico alla ferita sanguinante, il premonitorio Portrait de Guillaume Apollinaire (1914, Parigi, Musée national d’art moderne). Apollinaire, d’altronde, non solo era l’inventore nel 1917 del termine surréaliste (sch. p. 316), ma anche il poeta a cui Magritte, giocando a sovvertire i rapporti tra parola e immagine (sch. p. 810), aveva guardato con profonda attenzione6

La Mémoire fu acquistata da Francesco Federico Cerruti presso la galleria romana Erica Ravenna Fiorentini Arte Contemporanea7. Nell’inventario manoscritto della collezione del giugno 1993, l’opera è elencata tra le nuove acquisizioni ed è curiosamente menzionata la sua pubblicazione sulla copertina del libro Tractat del crim imperfecte di Carles José i Solsona (Barcellona 1978)8

Fabio Cafagna

 

1 Magritte 1979, p. 94, 95.

2 Ibid., p. 95

3 Sylvester 1992, p. 166.

4 Magritte 1979, p. 94.

5 Si vedano i dipinti a olio nn. 505 (1942) e 806 (1954) in Sylvester, Whitfield, Raeburn 1992-2012, vol. II; e le gouache nn. 1181, 1254, 1294, 1436, datate tra il 1942 e il 1957, in Ibid., vol. IV.

6 Per l’influenza esercitata da Apollinaire sul movimento surrealista, si veda C. Girardeau, Préambule aux générations dada et surréaliste autour de la figure d’Apollinaire, in Parigi 2016, pp. 221-231.

7 Ringrazio Erica Ravenna Fiorentini per le informazioni gentilmente concesse.

8 Inventario dei mobili, dipinti, sculture, argenti, tappeti, maioliche, porcellane e oggetti d’arte del 30-06-1993 (Archivio Collezione Cerruti).