Collana di perla (Collana)
Massimo Campigli (Max Ihlenfeldt)
1946
Olio su tela
53 x 34 cm
Anno di acquisizione 1990-1999
Inv. 0082
N. Catalogo A74
Provenienza
Esposizioni
Bibliografia
L’arcaismo, cifra della singolare interpretazione che il pittore ha fornito dell’idea del classico, ammanta lo stile da ritratto del quadro e senza celarlo lo riconduce a una dimensione di temporalità sospesa.
Il profilo che affiora dal fondo chiaro e screziato è una delle varianti con cui Massimo Campigli declina la figura femminile, soggetto al centro di tutta la sua pittura. La tela del 1946 è un ritratto immaginario, un cammeo ricavato da una materia cromatica stratificata che mette in risalto una singola individualità, solitaria rispetto alle schiere di donne ricorrenti nella sua produzione. In un testo del 1955, l’artista, lettore di Freud e di Jung, ricondurrà il proprio immaginario figurativo a una fantasia di bambino, a uno «sfarzoso palazzo orientale» abitato da «favorite», «sultane» e «schiave»: un sogno «elaborato e aggiornato» nel corso degli anni, nutrito di atmosfere di complicità e di gioco ma anche da una «visione “soavemente” sadica» di quelle prigioniere «chiuse e isolate nella loro stanza, strette nei loro vestiti»1.
Nato a Berlino, figlio di una ragazza nubile di origini alto borghesi, Max Ihlenfeldt cresce a Firenze e poi a Milano circondato dalle donne di famiglia, la nonna e le due sorelle, nate dal matrimonio della madre. Non ancora artista, ricorre per la prima volta allo pseudonimo Massimo Campigli per firmare Giornale + Strada. Parole in libertà pubblicato nel 1914 sulla rivista futurista «Lacerba»2, nel periodo dell’apprendistato al «Corriere della Sera», il quotidiano per il quale dal 1919 collaborerà come inviato da Parigi. Autodidatta, inizia la carriera di pittore nella vivace e cosmopolita cornice dell’École de Paris, con un percorso legittimato dall’esordio al Salon d’Automne del 1921, dalla personale alla Casa d’Arte Bragaglia di Roma nel 1923 e più tardi dall’adesione agli «Italiens de Paris», il gruppo guidato da Mario Tozzi, che lo vede esporre a fianco di Giorgio de Chirico, Filippo de Pisis, Renato Paresce, Alberto Savinio, Gino Severini.
Quando dipinge Collana di perle, Campigli vive in Italia. Negli anni trenta ha consolidato la presenza nel circuito artistico nazionale, con numerose mostre e una serie di importanti committenze pubbliche. È stato infatti uno dei firmatari del manifesto della pittura murale, redatto nel 1933 da Mario Sironi e sottoscritto insieme a Carlo Carrà e Achille Funi, un programma che mira alla sintesi tra arte e architettura, recuperando in chiave modernista le antiche tradizioni dell’affresco e del mosaico, impiegate come strumenti dell’ideologia e della retorica dell’umanesimo fascista. Nelle sale di edifici destinati alla collettività (l’atrio della Facoltà di Lettere a Padova, il Palazzo di Giustizia a Milano) o alle pareti di sedi e padiglioni espositivi (alle Triennali di Milano e all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937), Campigli ripropone gli abituali ginecei, intensificando la simbiosi tra figura e architettura, principio che struttura anche i quadri da cavalletto, scanditi da quinte, mensole, nicchie, finestre, scale. Il fondo smarginato e calcinoso, dal quale emerge la giovane con la collana, richiama i toni del muro e porta impressa la memoria di una tecnica che già negli anni parigini l’artista ha registrato con il termine fresque. Sulla tela del 1946, Campigli lavora la consistenza pastosa dell’olio con il pennello e la spatola, ottenendo una texture irregolare e granulosa, mobilitata da spessori, concrezioni e marezzature. Fonde e amalgama soggetto e sfondo nella continuità della tavolozza dei grigi azzurrati e dei rosa spenti, delle terre appena risaltate dal rosso antico dell’orecchino e delle labbra e dai riflessi in verde Veronese e blu cobalto delle perle. L’effetto è quello di una pittura parietale, un’immagine piatta, sorgente tra le screpolature che simulano la profondità e il lento sedimentarsi del tempo, chiedendo allo sguardo un’operazione di scavo. L’arcaismo, cifra della singolare interpretazione che il pittore ha fornito dell’idea del classico, ammanta lo stile da ritratto del quadro e senza celarlo lo riconduce a una dimensione di temporalità sospesa. Il gioiello indossato dalla giovane donna è un emblema di regalità ma anche un «impaccio», secondo la funzione che l’artista assegna ai monili, ispirati alle pitture etrusche e introdotti già nel 1929, chiamati a suggerire «l’idea che non si possano o non si debbano togliere»3. Ma l’aggraziato gesto della mano, risaltato da una scia del colore lasciata in vista all’altezza delle dita, conferisce movimento e vitalità alla protagonista, intenta a giocare con la collana di perle, avvolta in più giri intorno al collo, secondo una moda in voga dalla fine degli anni trenta4. La «transcripciòn màgica» di «gestos armoniosos»5 è la caratteristica riconosciuta a Campigli nell’introduzione di Marino Bonini sul catalogo Artistas Italianos de Hoy, per la mostra organizzata dal gallerista milanese Vittorio Barbaroux nel luglio 1947 alla Galleria Müller di Buenos Aires, dove Collar de perlas è esposto insieme ad altri quattro dipinti dell’autore. Rientrata in Italia, l’opera rimane di proprietà della galleria di Milano, da cui Francesco Federico Cerruti la acquisterà intorno agli anni novanta, completando il nucleo dei Campigli che ha iniziato a collezionare da tempo.
Giorgina Bertolino
1 Campigli 1995, pp. 69-71.
2 Id. 1914.
3 Id. 1995, p. 105.
4 E. Weiss, M. Weiss, Campigli e la moda, in Mamiano 2014, p. 57. Nel saggio Eva e Markus Weiss citano in particolare un servizio di Regina Relang pubblicato su «Vogue» il 1o maggio 1938.
5 M. Bonini, Introduzione, in Buenos Aires 1947, p. 8.
