Cavallo e cavaliere

Marino Marini

1960
Tempera su carta applicata su tela
132 x 92 cm
Anno di acquisizione ante 1983


Inv. 0144
N. Catalogo A137


Provenienza

Bibliografia

Il motivo del «Cavallo e cavaliere» fa la sua comparsa nella ricerca scultorea di Marino Marini con l’opera presentata alla Biennale di Venezia del 1936: in quel momento, raccogliendo giudizi asprissimi da parte della critica, l’artista pistoiese stava rimettendo in discussione uno dei soggetti iconografici più tipici della statuaria monumentale, facendone un motivo di indagine formale1 e offrendo al contempo una chiave antiretorica che ribaltava il significato di un tema votato altrimenti alla celebrazione eroica. Nudo in groppa a un cavallo senza sella, infatti, il cavaliere di Marino Marini diventa piuttosto una figura vulnerabile e inerme, in cui a partire dagli anni sessanta la critica riconoscerà un emblema della crisi esistenziale dell’uomo moderno. Attingendo a fonti disparate che vanno dall’archeologia all’arte contemporanea, come ha mostrato la mostra di Pistoia e Venezia del 2017-20182, lo scultore pistoiese aveva elaborato un sofisticato repertorio formale destinato a un grande successo di stampa e di pubblico, che si affermerà in maniera decisiva in particolare nei primi decenni del dopoguerra, fino a diventare una vera e propria icona della stessa opera di Marini. La figura si dispone sulla cavalcatura spesso in pose scomposte, evidenziando lo stato di precarietà della propria situazione a cavallo di un animale spesso immobile, esemplato su alcune antiche sculture cinesi, dal corpo tozzo e le zampe sottili, non di rado colto a sua volta in atteggiamenti poco adatti a un tema eroico: rigido e immobile col capo e il muso protesi in avanti, oppure voltato con uno scarto improvviso che disorienta lo stesso cavaliere. 

Il Cavallo e cavaliere del 1948, acquistato da Francesco Federico Cerruti prima del 1993 per intermediazione di Pinuccia Sardi e noto in sette esemplari in bronzo (di cui uno presso la Fondazione Marino Marini di Pistoia e sei in collezioni private) mentre il gesso originale si conserva presso il Museo Marino Marini di Firenze3, rientra pienamente all’interno di questa dinamica, accostandosi per affinità a un gruppo di opere ben individuato da Enzo Carli nella sua monografia del 19504

Lo stesso motivo proposto nell’esemplare Cerruti è infatti riscontrabile in una scultura più grande (114 x 124 x 54 cm) già di Collezione Jesi5, come segnala per la prima volta Carli6, rispetto alla quale però lo scultore ha aggiunto alla figura del cavaliere un paio di braghe sorrette da una bretella che attraversa la schiena, ponendola in sequenza col Cavaliere del 1947 del MoMA di New York alla tavola XXXIII7, in cui si ritrova lo stesso gesto, ma amplificato dalla torsione del cavallo, che volge la testa nella stessa direzione del cavaliere che si gira all’indietro, e che si deve accostare a quelli del 1947 di Collezione Soby e Jucker8, come preludio all’opera della Collezione Guggenheim di Venezia del 1949- 19509, posta a conclusione anche della monografia di Carli. Questa successione mette in evidenza un senso di progressivo disarmo: dal cavaliere che si tocca una spalla a quello che fa i conti con un cavallo che punta i piedi e sembra non volerne sapere di mettersi in posa da parata, fino alle braccia spalancate in un atto di rassegnazione del bronzo posseduto dalla Guggenheim. 

Al contempo, come fa notare Chiara Fabi10, la figura del «cavaliere» di Marini va vista in rapporto con quella del «giocoliere», che sottolinea l’ascendenza picassiana del motivo: in opere pittoriche e calcografiche, più che in scultura, non è infrequente incontrare famiglie di giocolieri o figure singole alle prese con cavalli che vengono dalla stessa scuderia dei bronzi cavalcati da spaventati e talvolta comici cavalieri. Accanto alle fonti gotiche e archeologiche, infatti, nel corso degli anni quaranta, insieme a numerose sfide formali nuove11, si impone il nome di Picasso come fonte primaria: le teste di alcuni cavalli, fra cui la stessa scultura Cerruti con il suo collo allungato e la bocca spalancata che mostra una fila di denti, gli occhi tradotti in un dischetto circolare e forato intagliato a rilievo, sembrano un immediato riscontro plastico dell’equino protagonista di Guernica del 1937. 

Marini, che Gianfranco Contini nel 1944 non aveva esitato a definire «un poeta delle superfici»12 lavora su una materia scabra, facendo tesoro, anche nel trattamento dei gessi, della ruvida esigenza di sintesi plastica e volumetrica tipica della scultura in legno: come avviene con questa tecnica, infatti, anche nei gessi per la fusione e nei bronzi stessi egli lascia segni e solchi evidenti, sorta di ferite che arricchiscono il chiaroscuro epidermico della forma e ne rendono la superficie rugosa e luministicamente drammatica. L’idea di incidere nella materia, del resto, è ricorrente anche nel delineare le fisionomie dei «cavalieri», quasi sempre stereotipi e discendenti di un antico modello egizio, che arrivano talvolta a somigliare puntualmente ai loro corrispettivi grafici e pittorici. Non mancano anzi casi, come mostra la tempera posseduta da Cerruti, e già passata dalla torinese Galleria Gissi, in cui l’artista non disdegna di incidere le proprie invenzioni formali direttamente sul foglio cosparso di pigmento nero: su una massa di colore dalla stesura grassa e veloce, con una rapidità analoga a quella di certi disegni di sola linea e soprattutto di certe incisioni (per esempio le acqueforti e acquetinte del famoso Album n. 1 edito da Gualtieri di San Lazzaro), Marini ha tracciato gli ingombri del cavaliere disarcionato, rimarcando oltre la fisionomia un po’ generica gli snodi anatomici principali della figura sbalzata dal suo rivale, o sull’atto di cedere a un impeto più grande che approda nella serie dei «Miracoli», come se le figure fossero state investite da un’apparizione talmente folgorante da farle cadere o da mettere fortemente in discussione il loro equilibrio precario. I cavalli si imbizzarriscono e si impennano di fronte a una fonte esterna non dichiarata, ma spesso afferente alla sfera dei riti sacri popolari, trasformando il cavaliere-saltimbanco in uno strumento di un’esperienza sublime di sopraffazione da parte di un’entità superiore. 

Eppure, al contempo, come farà notare Gualtieri di San Lazzaro introducendo il volume delle edizioni «XXè Siécle», tutta l’opera di Marini, nel suo insieme ma in particolare modo gli esiti più recenti di allora, è un grande «prologo per una premonizione». 

Luca Pietro Nicoletti

 

1 Si veda C. Fabi, Cavalli e cavalieri, in Pistoia-Venezia 2017-2018, pp. 172-189.

2 Pistoia-Venezia 2017-2018.

3 Pirovano 1988, pp. 122-123, tav. 109-110.

4 Carli 1950.

5 Marino Marini 1998, p. 220, n. 313.

6 Carli 1950, tav. XXV.

7 Marino Marini 1998, p. 214, n. 304a.

8 Carli 1950, tavv. XXXI e XXXII.

9 Marino Marini 1998, p. 232, n. 330b.

10 C. Fabi, Cavalli e cavalieri, in Pistoia-Venezia 2017-2018, pp. 172-189.

11 Si veda B. Cinelli, Nuove sfide formali del secondo dopoguerra, in Pistoia-Venezia 2017-2018, pp. 190-206.

12 G. Contini, Per Marino Marini, in Pirovano 1988, p. 10.