Al pascolo

Filippo Palizzi

1852
Olio su tela
36 x 50,5 cm
Anno di acquisizione ante 1983


Inv. 0234
N. Catalogo A224


Provenienza

Bibliografia

«L’occiduo raggio scende sul vello e sul pelame di questi quadrupedi, così bene osservati, così veri e pure così pittorici, da annoverarsi tra i migliori esemplari del genere eseguiti dal maestro abruzzese in un bel quadro di poesia campestre». 

 

Appartenuto in origine alla nobildonna napoletana Gilda Garbarino Dusmet de Smours (la provenienza è documentata da una scritta sul verso della tela), questo delizioso quadro di Filippo Palizzi si trovava all’inizio degli anni quaranta del secolo scorso nella raccolta di dipinti dell’Ottocento di Sebastiano Sandri (1887-1954). Enrico Somaré lo ricorda così nel numero di gennaioaprile 1941 de «L’Esame artistico e letterario», esposto nella dimora torinese del collezionista accanto a un Pastorello d’Abruzzo di Antonio Mancini: «Al Pascolo (tav. 29) dipinto da Filippo Palizzi nel 1862 [sic] un anno di maturazione, sopra una radura erbosa contro un cielo di nuvole benigne: l’asinello spelacchiato, il caprone velloso, la capra ritta sulle quattro zampe che guarda verso il fascio dell’erba che avanza pesando sulla spalla del pastorello dal giubbetto rosso, il cane pronto a ringhiare. L’occiduo raggio scende sul vello e sul pelame di questi quadrupedi, così bene osservati, così veri e pure così pittorici, da annoverarsi tra i migliori esemplari del genere eseguiti dal maestro abruzzese in un bel quadro di poesia campestre»1. Un’etichetta manoscritta a tergo del dipinto reca il medesimo giudizio circa la sua qualità, «‘Al Pascolo’ 1852 -/ è uno dei migliori suoi quadri/ del genere», assieme all’indicazione corretta dell’anno in cui venne eseguito. 

Nel 1852 il trentaquattrenne Palizzi ha ormai maturato un linguaggio pittorico personale e moderno, frutto di un approfondito studio della natura condotto sul vero nella natia Vasto, a Napoli, sua patria d’elezione, e soprattutto a Cava dei Tirreni, nel salernitano, dove fin dal 1847 si reca ogni estate per lunghe sedute di pittura all’aperto. A testimoniarlo sono dipinti come Due pastorelli (Vasto, Musei Civici di Palazzo d’Avalos) e Due bambine stese sull’erba (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea), eseguiti proprio in quell’anno e caratterizzati da un’estrema cura descrittiva e da un’acuta capacità di resa dei fenomeni luminosi2. Insofferente agli studi accademici, tanto da scegliere di abbandonare dopo pochi mesi soltanto il Real Istituto di belle arti di Napoli, dopo esservi stato ammesso nel 1837, Filippo Palizzi si dedica a quella che Domenico Morelli avrebbe definito «un’arte modesta di piccole proporzioni» ma con dentro «tutto un mondo di colore, di luce, di una verità, di un rilievo palpabile», riconoscendo all’amico la capacità di rendere interessanti anche i soggetti più umili e comuni. Già verso la metà degli anni cinquanta l’artista abruzzese s’era fatto apprezzare, lo ricorda Francis Napier nelle sue Notes on modern painting at Naples3, quale autore di dipinti di piccole e medie dimensioni con paesaggi, soggetti di vita rurale e soprattutto animali, ritratti con delicatezza e veridicità. 

Se le iniziali prove come animalista con cui Palizzi si presenta fin dal 1839 alle mostre del Real Museo Borbonico sono ancora legate a una serie di convenzioni e rivelano l’influenza di vecchi e nuovi modelli del genere veicolati dai repertori di stampe, dagli olandesi del Seicento ai più recenti esempi francesi di J. R. Brascassat e T. Géricault4, la successiva produzione, direttamente ispirata al vero e agli esempi dei barbizonniers, conosciuti in occasione del viaggio che nel 1855 lo porta in Belgio, Olanda e a Parigi, assume un carattere di immediato realismo che lascia «stupefatto» e pieno d’entusiasmo un artista come Michele Cammarano e suscita l’ammirazione di tutta una generazione di giovani pittori napoletani, da Saverio Altamura a Saro Cucinotta, allo stesso Morelli5Al pascolo è un dipinto rappresentativo della maniera di dipingere di Palizzi, meticolosa e costantemente basata sull’osservazione del vero. Come in altri suoi studi, la presenza umana rimane defilata e percepita quale accessoria, mentre sono le bestie, lambite da una luce carezzevole e descritte in ogni dettaglio, a conquistare il centro della scena secondo un sentire affine a quello che impronta le contemporanee liriche di Pascoli e di Carducci6.

Monica Tomiato

 

1 Somaré 1941, p. 56.

2 L. Arbace, Dalle prime luci dell’alba alle atmosfere della notte, in Arbace 2018, pp. 69-70, figg. 68, 69.

3 Napier 1855, pp. 108, 109.

4 Picone Petrusa 2014.

5 M. S. Ruga, Tronchi di Querce, in Seravezza 2014, p. 138.

6 Arbace 2018, p. 83.